I meccanismi del piacere della musica e le differenze individuali fisiologiche

 

 

LORENZO L. BORGIA

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIII – 19 settembre 2015.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

Lodate il Signore con la cetra,

con l’arpa a dieci corde a lui cantate.

Suonate al Signore un canto nuovo,

suonate la cetra con arte e acclamate.

[Salmo 32: 2-3]

 

Le parole dell’esergo ci ricordano che, in un’epoca remota come l’XI secolo a. C.[1], il piacere della musica, integrando il senso di versi poetici, contribuiva all’espressione di gioia in una manifestazione della principale esperienza culturale e spirituale di un popolo.

Presso i Greci antichi originariamente la parola musike indicò qualunque forma di devozione verso le Muse; quando assunse il significato contemporaneo, si riferì ad una parte importante della cultura e della vita, in modi e forme che la rendevano costantemente presente nelle attività quotidiane, anche secondo espressioni distanti dalla realtà di oggi. Le lettere, la cultura in generale, la religione e la guerra erano associate alla musica. Prima del VI secolo erano quasi inesistenti le forme letterarie scisse dalla musica e, in particolare, non esisteva la poesia priva di musica e concepita per la lettura in silenzio come ai nostri giorni. I poeti scrivevano la musica[2] e le parole dei propri componimenti che essi stessi cantavano al pubblico o ai committenti: la poesia lirica era quella accompagnata dalla lira, e solo in epoche successive anche da arpa o flauto. La retorica, ossia la straordinaria macchina di persuasione adottata da filosofi, giuristi e politici, si basava su esercizi di mnemotecnica che erano scritti in versi con ritmo musicale; le esercitazioni militari si svolgevano sulle note delle arie marziali. Coloro che volevano intraprendere l’attività di musici cominciavano presto lo studio di uno strumento musicale. Nell’Arcadia tutti gli uomini liberi studiavano musica all’età di trent’anni, così praticamente ciascuno sapeva suonare uno o più strumenti; essere inabile a cantare era considerato una disgrazia[3]. In ogni casa era possibile trovare strumenti a fiato o a corde, mentre quelli a percussione erano meno diffusi.

Il flauto semplice o aulos era costituito da una canna o da un legno svuotato in forma di tubo con una imboccatura staccabile e sul quale erano praticati da due a sette fori, nei quali talvolta erano inseriti degli otturatori mobili. Alcuni suonatori usavano lo strumento doppio: il flauto maschile o basso, tenuto con la destra, e il flauto femminile o tremulo, tenuto con la sinistra. La siringa o flauto di Pan era costituita da una serie di cannule, o piccoli flauti graduati, legati insieme.

La lira, il forminx (intermedio fra lira e cetra), la khitara e il barbitos (basso della khitara) avevano in comune le corde di budello di pecora distese attraverso un corpo sonoro metallico e un guscio di tartaruga. La kithara era suonata come una piccola arpa nell’accompagnamento della poesia narrativa, mentre la lira, come si è già accennato, era impiegata per la poesia lirica e per i componimenti detti canzoni.

La musica ellenica era molto diversa dalla nostra e gli effetti piacevoli si basavano anche su variazioni tonali alle quali il nostro organo del Corti, le nostre vie acustiche, la corteccia temporale dell’area 41 di Brodmann e le altre aree corticali del nostro cervello, non sono abituati. Infatti, noi ascoltiamo solo musica basata su una scala diatonica che non considera alcuna divisione inferiore al mezzo tono: sette note inframmezzate da cinque diesis o bemolle costituiscono i dodici semitoni che compongono la nostra ottava. I Greci, invece, usavano i quarti di tono e avevano 45 scale di diciotto note ciascuna[4]. Per comprendere in cosa consistessero i modi dorico, lidio e frigio - talvolta accostati a generi musicali moderni - si deve tener conto che nelle scale diatoniche basate sul tetracordo si producevano sette modi (harmoniai), accordando specificamente le corde così da modificare la posizione dei semitoni nell’ottava; i tre modi più seguiti erano un’ottava di Mi in chiave minore (dorico); un’ottava di Do in chiave maggiore (lidio); un’ottava di Re in chiave minore (frigio). Su questo paradigma si erano poi sviluppate delle tradizioni compositive[5].

Nella Atene del IV secolo a.C., Aristotele auspicava che tutti i giovani fossero formati alla musica dorica[6], che rendeva dignitosi e coraggiosi; il suo allievo e successore nella direzione della scuola peripatetica, Teofrasto, sostenne che le malattie gravi potevano essere alleviate suonando un’aria frigia in prossimità della parte affetta. La maggior parte dei filosofi riteneva che la musica lidia rendesse sentimentali e deboli, mentre quella frigia facesse diventare eccitati e testardi.

Un fatto bene documentato è l’associazione costante della musica con la danza[7], e una frequente e sempre maggiore associazione degli eventi musicali collettivi ad esperienze di disinibizione ed erotismo. Probabilmente, anche per tali ragioni Platone riteneva che il risultato della maggior parte della musica fosse “il lusso effeminato e l’immoralità grossolana”[8], minacciose per la rettitudine d’animo e la forza del carattere, al punto da desiderare che fosse bandita ogni esibizione musicale dal suo Stato ideale.

L’incidenza e il riconoscimento sociale che aveva il piacere prodotto dall’ascolto della musica nella Grecia antica è testimoniato dal fatto che i musici famosi erano pagati cifre stratosferiche[9].

Lo studio neuroscientifico delle basi cerebrali del gradimento della musica ci porta a considerare quanto accade nel singolo cervello e, inconsapevolmente, a focalizzare l’attenzione sul piacere della musica quale esperienza individuale; ma sono proprio gli eventi di partecipazione collettiva a ricordarci l’universalità di alcuni effetti della percezione del suono, quali conseguenze di proprietà funzionali comuni al cervello di tutti gli esseri umani. D’altra parte, la distinzione fra risposte generali e differenze individuali costituisce una delle principali sfide della ricerca in questo campo.

La generazione che ci ha preceduto, ci ha lasciato le documentazioni filmate e il mito giovanilistico dell’Isola di White: oltre mezzo milione di persone convenute in un’isola per ascoltare musica[10]. Se è indubbio che una tale partecipazione, senza precedenti nella storia, si spiega con varie ragioni che sono state analizzate in chiave sociologica, è altrettanto certo che il fulcro dell’attrazione era costituito dal piacere di ascoltare musicisti e cantanti noti e apprezzati. Certamente qualcosa legata al piacere della musica accomunava la moltitudine di persone convenute, ma sicuramente non tutti gli interpreti piacevano a tutti gli spettatori che, per inciso, a loro volta si esibivano partecipando alle performances o esprimendosi parallelamente in maniera indipendente. I gusti musicali differenti, in quel caso e più in generale, sono solo da attribuirsi al modo in cui si sono formate le memorie, a fattori culturali, all’educazione musicale ricevuta, agli apprendimenti associativi legati alle vicende della vita di ciascuno, o sono anche espressione di differenze individuali del cervello che caratterizzano e condizionano la percezione e il gradimento dell’esperienza acustica?

Ormai la maggior parte dei ricercatori ritiene che un ruolo importante nella differente reazione alla musica sia da attribuire a differenze nella fisiologia cerebrale, pertanto la ricerca ha l’arduo compito di chiarire in cosa realmente consistano tali diversità.

Gli studi condotti con metodiche di neuroimmagine, e in particolare con l’ausilio della tomografia dell’encefalo mediante risonanza magnetica nucleare funzionale (fMRI, da functional magnetic resonance imaging), hanno dimostrato che il sistema a ricompensa dell’encefalo umano ha un’importanza centrale in questa esperienza. Robert Zatorre, uno dei massimi esperti di basi neurali della musica, ha perciò specificamente indagato questo sistema neuronico per cercare di comprendere le ragioni neurobiologiche della presenza o dell’assenza di gradimento del suono e della musica in condizioni fisiologiche. A tale fine, ha studiato volontari non affetti da stati psicopatologici (anedonia depressiva) o da malattie neurologiche o di altra natura, che potessero condizionare la risposta all’esperienza acustica indotta a scopo sperimentale.

Più recentemente, Zatorre si è impegnato in una revisione della letteratura scientifica sull’argomento, esaminando criticamente i risultati della ricerca. Il resoconto, riportato negli Annali dell’Accademia delle Scienze di New York, è di notevole interesse (Zatorre R. J., Musical pleasure and reward: mechanisms and dysfunction. Annals of the New York  Academy of Sciences 1337: 202-211, 2015).

La provenienza dell’autore è la seguente: Montreal Neurological Institute, McGill University, Montreal, Quebec (Canada); BRAMS Laboratory, Centre for Research on Brain, Language and Music, Montreal, Quebec (Canada).

Anche se la complessa realtà della musica, intesa come frasi melodiche, sequenze armoniche e strutture ritmiche, non è ancora stata decodificata in termini neurofunzionali, un notevole bagaglio di conoscenze sulla percezione uditiva e sulla elaborazione cerebrale degli stimoli acustici deriva dalla sperimentazione che ha adoperato frequenze sonore e, in particolare, suoni musicali.

È emerso che i suoni sono la fonte di molti tipi diversi di informazione, che riguardano la loro natura, il significato e la localizzazione. La rappresentazione neurale delle caratteristiche fisiche del suono raccolte da ciascun orecchio, incluso lo sfasamento temporale fra le due coclee, consente l’estrazione dell’informazione. La rappresentazione neurale del suono comincia nei nuclei cocleari, nei quali il nervo acustico (VIII paio dei nervi cranici) impone un’organizzazione tonotopica e distribuisce l’informazione acustica in vie parallele.

Il nucleo cocleare ventrale estrae informazioni circa la struttura temporale e spettrale dei suoni. Il nucleo cocleare dorsale integra le informazioni acustiche con quelle somatosensoriali, facendo uso di stimoli spettrali per la localizzazione dei suoni. Il complesso del nucleo olivare superiore nei mammiferi contiene circuiti separati per la rilevazione dello sfasamento temporale di percezione fra le due orecchie della differenza di intensità. Da questo complesso nucleare provengono feedbacks per la coclea. Il collicolo inferiore trasmette l’informazione alla corteccia attraverso il corpo genicolato mediale del talamo. La corteccia cerebrale mappa vari aspetti del suono ed implica l’intervento di numerose aree che elaborano l’informazione anche grazie a circuiti cortico-sottocorticali.

Tutto questo insieme non è stato ancora caratterizzato, parte per parte, secondo un profilo morfofunzionale in un definito spettro di parametri normali, precisamente distinti da quelli anomali, rari o patologici; pertanto, una delle poche differenze individuali certe riguarda la reazione all’esperienza percettiva, ed è stata documentata studiando il cervello di persone che erano all’ascolto di una musica gradita. In alcune di esse, nonostante apprezzassero quanto percepivano, non si aveva l’attivazione del sistema a ricompensa cerebrale come nella maggioranza dei partecipanti all’esperimento.

È noto che Victor Hugo, l’autore de I Miserabili, pur vivendo in un’epoca in cui si riteneva che un uomo di cultura dovesse essere educato a conoscere ed apprezzare il meglio di ogni arte, non faceva mistero della sua avversione per la musica. Se vivesse oggi, con ogni probabilità Zatorre gli proporrebbe di sottoporsi ad un’accurata indagine morfofunzionale del cervello. Infatti, per rilevare i tratti caratterizzanti una probabile impossibilità di provare piacere nell’ascolto della musica, non è sufficiente uno studio RM standard in grado di documentare evidenti alterazioni anatomiche. Una tale convinzione deriva dal fatto che in molti casi di sindromi neurologiche dovute a malformazioni cerebrali, la sensibilità per la musica era conservata, quando non era accresciuta[11]. In generale, sembra che macroscopiche alterazioni dell’architettura dell’encefalo verificatesi nel corso dello sviluppo, pur comportando conseguenze sulla fisiologia delle emozioni, degli affetti e della cognizione, non comportino una perdita delle principali risposte alla musica (melodia, armonia e ritmo), anche se è difficile immaginare il modo in cui sia soggettivamente elaborata l’esperienza musicale da parte di coloro che, pur presentando disturbi affettivi e limiti cognitivo-linguistici tali da ostacolare la scolarizzazione, diventano virtuosi strumentisti. Al contrario, se pur rari, sono documentati casi di lesione cerebrale dell’adulto che comportano amusia[12]. In base a tali osservazioni si può perciò supporre che esista un controllo localizzato delle funzioni cerebrali connesse con la musica, come accade per la comunicazione verbale che può essere alterata da lesioni focali nelle varie forme di afasia.

Così come esistono aree corticali la cui lesione causa afasia motoria (area di Broca), afasia recettiva (area di Wernicke), afasia di conduzione (regioni soprasilviane e fascicolo arcuato), e così via, è probabile che vi siano territori circoscritti specializzati nel controllo funzionale di ciascuna componente neurofunzionale della musica[13].

È opportuno ricordare che, anche se la maggior parte dei ricercatori indaga l’elaborazione cerebrale del suono nelle sue espressioni tonali, la musica ha un’altra componente oggetto di ricerca da molti anni: il ritmo. In numerosi studi, anche fra quelli da noi recensiti in passato, sono state indagate le basi neurofisiologiche della percezione del ritmo e della nostra tendenza ed abilità a seguirlo[14]. Il potere del ritmo di generare piacere è stato analizzato di recente da Vuust e Witek, che propongono la teoria della codificazione predittiva quale base per la comprensione della risposta al ritmo: il piacere deriverebbe dalla soddisfazione delle previsioni del cervello circa gli eventi ritmici[15].

Fra i quesiti posti alla verifica sperimentale, c’è l’interrogativo sulla natura neurobiologica del gradimento della musica; in altre parole, ci si è chiesti se per il cervello l’apprezzamento di un’esperienza musicale costituisse un vero e proprio piacere. La risposta fornita dagli studi di neuroimaging è certamente affermativa, in quanto tali osservazioni hanno documentato l’attivazione di aree implicate nella mediazione delle comuni risposte edoniche. Vari esperimenti hanno provato che il sistema a ricompensa cerebrale ha un ruolo centrale in questa esperienza.

In estrema sintesi, si può dire che i sistemi dello striato dorsale e ventrale rilasciano dopamina quando si ascolta musica gradita e che l’attività neurale in queste strutture codifica il valore di ricompensa di campioni di musica ascoltata.

Un altro aspetto funzionale ritenuto importante è che i processi che hanno luogo nello striato interagiscono con i complessi meccanismi della corteccia cerebrale implicati nell’elaborazione percettiva e nella valutazione degli stimoli musicali. Nell’insieme, le regolarità emerse e confermate nei vari studi, consentono di delineare un complesso sistema per la elaborazione percettiva, cognitiva ed emozionale della musica, sulla base di un profilo morfo-funzionale virtualmente presente ed operante in ogni individuo. Solo di recente si sono cominciate ad esplorare le differenze individuali nel modo di funzionare di questo articolato insieme di aree e vie nervose cerebrali.

In questa fase della ricerca un ruolo importante lo ha avuto lo sviluppo di un questionario per la valutazione delle esperienze di ricompensa legate alla musica. Tale insieme di domande ha consentito l’identificazione di fattori separabili associati al piacere musicale, così schematizzabili:

1) ricerca della musica;

2) evocazione di emozioni;

3) regolazione dell’umore;

4) fattore sensomotorio;

5) fattore sociale.

L’applicazione di questo questionario ad un campione molto esteso della popolazione generale, ha consentito di scoprire che approssimativamente il 5% presenta bassa sensibilità agli effetti di ricompensa (piacere, gratificazione, soddisfazione, ecc.) in assenza di condizioni quali anedonia generalizzata o disturbi depressivi di qualsiasi grado.

Visto che il piacere della musica è mediato dal sistema a ricompensa, che è risultato attivo in tutte le esperienze edoniche sottoposte a verifica sperimentale, è lecito chiedersi se le persone che non sperimentano questo effetto siano portatrici di un deficit funzionale di tale sistema neuronico. In tal caso, dovrebbe essere possibile dimostrare un difetto generale nell’esperire il piacere.

Un’altra possibilità, che è stata presa in considerazione dalla ricerca, è rappresentata dall’esistenza di un deficit selettivo nell’elaborazione della musica. In altri termini, in presenza di una perfetta funzionalità fisiologica neurosensoriale elementare della percezione uditiva, sussisterebbe un difetto nei sistemi neuronici che normalmente elaborano la musica in modo da consentire l’attivazione dei collegamenti con i circuiti edonici.

In proposito, Zatorre riporta gli esiti di uno studio condotto dagli stessi ricercatori che hanno introdotto il questionario sopramenzionato: vi sono soggetti che presentano risposte comportamentali e psicofisiologiche normali a ricompense diverse dalla musica, quali ad esempio un premio in denaro, ma non sembrano in alcun modo in grado di sperimentare piacere nell’ascolto di brani musicali, nonostante abilità integre di percezione della musica.

L’approfondimento analitico nell’esame di tali persone ha rivelato l’integrità dei processi che consentono di identificare, all’ascolto di brani, il linguaggio affettivo-emotivo delle composizioni, ossia la qualità umorale che l’autore intendeva trasmettere, secondo la generale e comune sensibilità musicale. Dall’insieme dei dati emersi, si è perciò desunto che i volontari incapaci di provare piacere presentano una forma di anedonia specifica per la musica. Una tale precisa identificazione, come rileva Zatorre, costituisce un importante riferimento per ulteriori indagini. In particolare, l’autore dell’articolo recensito si augura che dal prosieguo degli studi possa venire una maggiore comprensione della fisiologia del sistema a ricompensa, ma è lecito attendersi che la comprensione della causa dell’anedonia per la musica possa illuminarci sulle basi morfo-funzionali del rapporto fra elaborazione della musica e piacere, indicando le differenze cerebrali fra chi prova e chi non prova l’effetto edonico, quale primo passo nella conoscenza dell’individualità neurobiologica dell’esperienza artistica.

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Lorenzo L. Borgia

BM&L-19 settembre 2015

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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[1] I salmi, raccolti nel volume biblico detto Salterio o Libro dei Salmi, sono stati composti in epoche che vanno dall’XI secolo a.C., epoca del Re Davide, al IV secolo a.C. . Già nella tradizione greca più antica, il termine salmo indicava un cantico accompagnato da strumenti a corda. I 150 carmi che il popolo ebraico adoperava nella liturgia del tempio di Gerusalemme sono parte integrante della tradizione cristiana, che li interpreta alla luce del mistero messianico, costituendoli tra i fondamenti della preghiera, in quanto Cristo stesso se ne servì spesso.

[2] La notazione musicale greca, priva di pentagramma, usava per le note le lettere dell’alfabeto modificate o invertite, aumentate da punti e trattini per un repertorio di 64 simboli, posti in genere sulle parole dei componimenti poetici.

[3] Polibio, IV, 20-21; Athaenaeus, XIV, 22; Cfr. Will Durant, Storia della Civiltà – La Grecia, Vol. I – Preludio Egeo L’Ascesa della Grecia – p. 244, Ed. ital.: Edito-Service S. A. (Ginevra) & Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1956. Per tutti i riferimenti storici si ringrazia la professoressa Monica Lanfredini.

[4] Cfr. Oxford History of Music, 8. Tali scale erano divise in tre gruppi: diatoniche, basate sul tetracordo (Mi Re Do Si), cromatiche ed enarmoniche. Dalle greche nacquero le scale della Chiesa medioevale, che hanno dato origine alle nostre.

[5] Cfr. Oxford History of Music, 8; Will Durant, op. cit., p. 245. Le composizioni doriche erano definite marziali e gravi, le lidie tenere e commoventi, le frigie orgiastiche, passionali e selvagge.

[6] Aristotele, Politica, 1342b.

[7] Si pensi che l’uso del termine piede nella metrica greca (per esempio: piede giambico) era derivato per analogia con il passo di inizio della danza che accompagnava i versi.

[8] Will Durant, op. cit., p. 245.

[9] È stato calcolato che Ameb, arpista e cantore, percepiva per ogni rappresentazione una cifra corrispondente al valore di 3 milioni e mezzo di lire italiane del 1956 (Cfr. Will Durant, op. cit., p. 247).

[10] Si fa riferimento al festival dell’Isola di White seguito dal 26 al 30 agosto 1970 da oltre 600.000 persone, come documentato nel film di Murray Lerner: Message To Love: The Isle of White festival. Vi fu l’ultima apparizione di Jimi Hendrix e l’ultima esibizione in Europa di Jim Morrison con i Doors, accanto a Joan Baez, Jethro Tull, Miles Davis, ELP, Who, Free, Leonard Cohen, Joni Mitchell, Donovan, Moody Blues, Ten Years After, ecc.

[11] Nel 2007 il nostro presidente ha presentato, in un incontro con i soci sulle basi cerebrali della cognizione e ad un incontro su “Musica e Gioia”, con un gruppo di studio presso il Caffè Storico Gilli in Firenze, delle straordinarie immagini del cervello privo del corpo calloso e con altre displasie-aplasie di Kim Peeks. L’uomo, che aveva ispirato il soggetto del film “Rain Man”, apprezzava la musica e in età matura aveva deciso di dedicarsi allo studio del pianoforte, riuscendo in breve ad acquisire una discreta tecnica.

[12] Ma l’amusia non è soltanto acquisita. Un caso di amusia congenita, ormai famoso, fu pubblicato su Neuron il 17 gennaio 2002 da un gruppo di ricercatori che, con Robert Zatorre e Isabella Peretz, includeva un neuroscienziato del calibro di Jacques Mehler. La paziente, detta convenzionalmente Monica, presentava integrità percettiva in ogni ambito analizzato, ma rimaneva incapace di distinguere e riconoscere melodie. Il deficit è stato attribuito ad una incapacità di discriminazione fine fra i toni musicali. Non sono state riconosciute alterazioni macroscopiche nel cervello di Monica alle quali imputare l’amusia.

[13] Alcune evidenze di circuiti specializzati, sia per il ritmo sia per il suono, sono state rilevate, ma la loro documentazione esulerebbe dai limiti di questo scritto.

[14] Si ricorda che nelle batterie di test che si adoperano per valutare lo sviluppo del sistema nervoso sono incluse prove specificamente dedicate all’accertamento del livello raggiunto dal bambino nelle abilità legate al ritmo.

[15] Wuust P. & Witek M. A., Rhythmic complexity and predictive coding: a novel approach to modeling rhythm and meter perception in music. Front Psychol. 5: 1111, Oct. 1, 2014.